#BeautyIs quello che di solito non vedi allo specchio

10/04/2014 § Lascia un commento

Non sono una beauty blogger e nemmeno fashion blogger, diciamo che sono una “paturnie-mie” blogger, perché parlare dei fatti propri, anche ai tempi dell’Internet, non è sempre reato.

Immagine

Voi vi guardate mai allo specchio per cercare di scrutare e individuare quello che gli altri vedono di voi? Indossare per un attimo gli occhi degli altri insomma.
Io lo faccio spesso, soprattutto con il profilo del mio viso, perché lo odio (ma non vorrei) e quindi cerco continue interpretazioni allo scempio che vedo con i miei occhi, sperando di trovarci qualcosa di bello, qualcosa che prima non ho mai colto.

muffin
Eppure sono certa che quel qualcosa di bello c’è, e sapete quando?
Quando sto con un’amica che mi racconta di essere innamorata, quando faccio colazione con un muffin il sabato mattina, quando la settimana è andata bene.

E io su queste cose ci ragiono raramente, tipo quando mi ritrovo a guardare, ad esempio, i piccoli capolavori di Dove.
Qui sotto trovate piccole nuove storie di bellezza, di quella che non trovi facilmente nello specchio.

I 5 motivi per cui non sono ancora pronta a trasformarmi in madre

17/02/2014 § 8 commenti

Alert: questo post contiene una grande quantità di cliché ed ellissi.
Se siete stomaci deboli o abili polemizzatori, mollate pure qui, vi voglio bene uguale.

Sì, ho quasi 30 anni e mia madre, alla mia età, aveva due figli. Erano altri tempi, si poteva lasciare la porta aperta e chi più ne ha più ne metta.
Essendo io in crisi esistenziale proprio in questo periodo, mi sono ritrovata a pensare a cosa potrei essere se non fossi così come sono, ma soprattutto a cosa sarei potuta essere se avessi fatto delle scelte diverse. No, il tenore del post non è questo: tranqui. È che nelle prime righe dei post dice che bisogna sembrare brillanti.

Ma riprendiamo le fila del discorso.
Narravamo del fatto che ho quasi 30 anni (avvertiti: 22) e diciamo che nella mia vita, ad ora, ho concluso ben poco. Non posso neanche minimamente pensare, adesso come adesso, di metter su qualcosa di solido: comprare una casa, un’auto, prenotare le vacanze tutti gli anni (ma pure uno sì e un no) e via dicendo, ma soprattutto, non sono ancora pronta a trasformarmi in Madre dispensatrice di vita.
Il motivo non è meramente economico (beh, oddio, per la gran parte sì) e a dir la verità, non è neanche uno solo.
Ecco che vi snocciolo, con dovizia di particolari, le varie motivazioni invalidanti:

  1. Letto rifatto senza piegheÈ un must, è la patente europea della madre: se non sai rifare il letto senza pieghe continua pure a comprarti le birette al Rattazzo e a fare le 4 di mattina il sabato.
    Io effettivamente sono un caso particolare: non rientro più a casa alle 4 di mattina e non compro birette al Rattazzo, è che non rifaccio proprio il letto, sono un po’ indietro.
    Lo ammetto, ci ho provato, ma al dodicesimo andirivieni intorno al letto senza risultati evidenti mi sono sentita in dovere di spendere quel tempo in altro modo, tipo pulire la cache del cellulare, seduta sul letto.
  2. Biancheria riutilizzabileLa madre conosce segreti che, mi sembra evidente, altri esseri non scorgeranno mai. Quando lava lei la biancheria diventa addirittura riutilizzabile: i calzini non si reggono in piedi da soli e gli asciugamani asciugano davvero, non graffiano e possono essere piegati senza l’ausilio di una piegatubi.
    La colpa è nell’ordine di:
    1) Acqua con troppo calcare
    2) Rapporto errato detersivo/ammorbidente
    3) Tempistiche di “stenditura” che variano tra le 4 e le 6 settimane
    State ancora cercando una ragione plausibile? Tutto inutile, lasciate stare.
  3. Ciclo breve di smontaggio, lavaggio, asciugatura e stiratura – Lei, la madre, lo fa in 3 nette, TRE-ORE-NETTE, per qualsiasi cosa. Tende, piumoni, pensili della cucina, AK47, tovaglie, lenzuola, mutande, tappeti, poltrone: per lei non c’è differenza.
    Se sei un povero disgraziato fuori sede come me sai di cosa sto parlando. Io per una lavatrice, se non passano almeno due settimane da quella precedente, non mi sento a mio agio. Ora capite a cosa mi serve lo shopping? È SOPRAVVIVENZA.
  4. Progress alimentare di almeno una settimanaLei al primo sguardo, al primo incrocio di pupille, ha già stilato il menu di almeno 3 giorni, quello del quarto te lo chiede, è una questione di partecipazione e il quinto è sempre lo stesso da 30 anni, ed è giusto così. Io la posso fa’ ‘sta cosa? Mi tremano le rotule solo al pensiero. Non sono ancora pronta, anche lì perché mi manca uno step fondamentale: avere gli ingredienti per cucinare, vedere in essi qualcosa di più della semplice somma e metterli insieme previa cottura.
  5. Aspirapolvere a ciclo integraleNo, non sono ancora capace di passare l’aspirapolvere sotto il letto di qualcuno che dorme, magari di sabato mattina verso le 9. Lei sì.

Ecco, ecco perché io ancora non sono pronta. Sì, lo so, questi super poteri si acquistano dopo, nessuno nasce imparato e nessuna nasce madre, ma dai, dite la verità, mi ci vedete madre?

Ad ogni modo di madre c’è già la mia, che è top per per me e per lei messe insieme.

 

Ho guardato il Sole con gli occhi, con le orecchie mi pareva difficile

13/02/2014 § Lascia un commento

Questo post nasce da una questione per me fondamentale per andare avanti e campare senza che io compia atti sconsiderati: oggi alle 17:08 era ancora giorno.
Quando guardi fuori dalla finestra di certo lo fai per cercare altro, per guardare un po’ più là o, banalmente per vedere che tempo fa (e no, non chiedo scusa per la rima, non ho mai capito perché si dovesse chiedere scusa per una rima, è una cosa brutta?).
Stai cercando qualcosa, fidati: domande o risposte che siano.
Io l’ho fatto oggi, malaticcia e acciaccata come solo il gattino della pubblicità Barilla: ho guardato là fuori e intorno a me era tutto bello, poco ma bello.
Ho pensato a qualche giorno prima e analizzato i giorni che ancora devono venire: tutto regolare, bello e regolare. Che bellezza, ve’?

NO.

Io ho ‘sto problema che il “tutto bello e regolare” vado rincorrendolo per mesi, anni e poi boh, manca sempre un pezzo, quale? Bah.
Sto lì a impegnarmi per far quadrare tutto, per non fare cazzate, per acquietarmi e poi niente, non ce la faccio.

Ora, come solo i veri scrittori (?) fanno, citerò mio padre: “Ti manca sempre un soldo per comporre una lira” (vi ho risparmiato il dialetto).

Hai ragione babbo, hai troppa cazzo di ragione.

Inutile nota a margine: scrivo talmente poco che ogni volta che ripasso di qui è cambiato tutto. Vedi? Mi piacciono le cose che non si fermano mai, sempre diverse, nuove, però sicure.

Quello che i vostri amici non vi dicono sulla musica che ascoltate

24/06/2013 § 5 commenti

Preeeeeendi una peeeezzaaa, impuuuugna il Cif, spruzzalo come fosse odioooooo, controquellocheèilmaledituttiigiorniiiiii, lo spooooorco, l’atarasssssiiiiiiaaaaaaa.
Una sigarettaaaaa, il caffèèèèèèèè, accomodato sul top della cucina in acciaoooooo, quell’acciaiooooo una volta lucidooooo e ora graffiato da una spugnaaaaaa ormai con le gambe e troppoooo ruvidaaaaaa.
Il sabatoooo, le pulizieeeee, quella lavatrice che non la finisce piùùùùù, la sociologiaaaa, Watzlawick e i suoi assiomi della comunicazioneeeeeee, Giolitti è mortoooooo, sììììì è proprio mortoooooo. È finito il Mister Muscolooooooo, questa città fa maleeeeeeee, inciampareeee sull’azaleaaaaa, la zanzarieraaaaaaaaaaaa attentacheèchiusachepoicivaiincontroequellasirompeeeeee porco demooooooonioooooo.
Il coniglio verdeeeee, l0 smalto sbeccatoooooo, le sportineeeee imprigionate in quella dimora bianca di fredda plaaaasticaaaa. Ma ci vogliamo bene cosìììììì, noi troppo stinti e troppo antaaaaniiiiiii, noi così viciniiiii ma anche così na na na na na na na aniiiiiiiiii.

Ecco, io non so se siete arrivati a leggere fino a qui dopo questo delirio, che ovviamente è sensatissimo, ma se così fosse: applausi, vi voglio bene.
Sto per scrivere qualcosa di spinoso, appuntito, che desterà scompiglio nel mondo della musica, quella musica di cui io non ne capisco una sempiterna fava (sì, mi denigro, fa sempre la sua figura).

Insomma stasera mi sono messa ad ascoltare quei cantanti che vanno di moda adesso, quelli che come nome d’arte scelgono il cognome, mi sa che si fanno fare il naming dal prof di Filosofia del Liceo, quello di cui parlano poi nelle canzoni, peraltro. Forse lo fanno per fare contrasto con quegli sgarzullini mainstream che escono dai talent, loro scelgono solo il nome invece. Ci avevate mai fatto caso? So’ bandiere pure quelle.
Ci sono questi qui che con la chitarrina si mettono lì a musicare quelle cose di tutti i giorni, quelle cose che trasudano normalità, socialismo, completi tartan, baffo curato, sedia di paglia, chitarra col battipenna deflagrato.

Ecco, proprio quelli lì, quelli lì non li sopporto. Mi sembrano tutti uguali, parlano delle stesse robe, a parer mio utilizzano anche quella stessa malata dovizia di particolari nel descrivere cose dal’alto margine di complessità  tipo: una lattina di Coca Cola, la città, la sabbia, Paolo, le biciclette, quello che c’è fuori dalla finestra, gli amici drogati, il lungomare, le banche, la pesca del tonno, Cristo che viaggia con le All Star, l’EURIBOR. Insomma: MA DE CHE STAMO A PARLA’?

Quelle metriche zoppe, quelle sincopi matte che non ti permettono di seguire una canzone con la melodia che ti sei fatto intesta, le paturnie da narratore omodiegetico (sì lo so che potrebbe stare bene in una di quelle canze), le situazioni folli, le iperboli, ma soprattutto l’ansia.

Li rispetto eh ma a me piacciono quelle robe che i pensieri ti ci si incastrano in mezzo e non te ne accorgi, che il cuore ti ci batte dietro in concerto senza però rischiare infarti, che ti ritrovi a guardare nel vuoto che poi arriva l’amico simpatico e ti sventola la mano davanti per farti ripigliare.

Chiedo scusa a tutti i miei amici e lettori che seguono il genere, ma stasera mi premeva di essere particolarmente franca con voi. Saranno stati i ravioli col burro e la salvia del mio balcone, o il cinghiale ieri sera.

Volevo solo dire che io al terzo pezzo ho la stessa stanchezza mentale di 2 ore e mezza di discorsi di ragazza-sconosciuta-problematica-incontrata-su-Intercity e vi volevo dire anche che per me, l’unico che può mozzare le metriche, affettarle, annodarle e rivoltarle come calzettini, è solo ed esclusivamente lui:

Caramelle, solo caramelle

14/06/2013 § Lascia un commento

Stava ascoltando gli 883, in una sera in cui era malaticcia e ingoiava caramelle per la gola come fossero ciliegie. Aveva ascoltato rock anni ’70 tutto il giorno e quindi si era deciso che di serietà ne aveva accumulata fin troppa.
Stava lì, stesa sul letto, adagiata su un piumone che non le andava di togliere. Chissà, magari lo avrebbe fatto l’indomani. Luce soffusa che partiva da una piccola lampada sul comodino dal colore indecifrabile. Rosa? Rosso? Boh. La finestra con la zanzariera abbassata per la prima volta nella stagione: finalmente aveva cominciato a far caldo e le zanzare si erano appena fatte sentire con due punture, quelle stronze.
Insomma lei era lì, ciondolava già da qualche ora, aveva voglia di uscire ma sarebbe stato tutto troppo complicato: lo sciopero dei mezzi, i dolori alle articolazioni per una giornata faticosa 24 ore prima, l’apparato respiratorio rovinato dal primo concerto all’aperto, svoltosi in un ambiente con umidità al 98% scesa in 4 minuti netti: non aveva più il fisico.

Prese il computer, se lo appoggiò sul basso ventre a scottare anche le cosce e si mise a scrivere, non sapeva bene di cosa, ma voleva scrivere.
Cinque minuti di sguardo vuoto sull’editor di testo, una pensata al titolo non andata a buon fine e le braccia stanche per colpa della tricotillomania. Sì, quando pensava e andava minimamente in paranoia si arrotolava ciocche di capelli attorno al dito indice, era un bagaglio emotivo non disfatto che si portava dietro da quando era bambina, lo faceva con la federa del suo cuscino antisoffocamento, abbandonato solo all’età di 13 anni. Le conosceva bene quelle ciocche, erano ormai sempre le stesse, alcuni punti davano più soddisfazione di altri ma non riusciva a capire il perché.
Si sentiva un po’ fuori posto, un po’ sbagliata e un po’ interrotta, ma non da una cosa in particolare bensì dal flusso generale di quello che le accadeva intorno. Quelle situazioni che non le stavano mai bene addosso, che facevano difetto, a volte addirittura la sfioravano e basta, lasciandola come quando qualcuno ti saluta, ti gasi, e ti rendi conto che sta agitando le braccia per quello dietro di te. Lei non ci riusciva a essere non coinvolta e per questo rimaneva spesso delusa a guardare quello che salutava quell’altro.

Stava lì ad aspettare qualcuno che la stupisse, che le dicesse “vieni con me”, che le insegnasse le tante cose che ancora non sapeva, che le facesse dimenticare di avere un cellulare con connessione dati. Ebbene sì, quando stava bene bene riusciva a scordarsene per giornate intere.

Aveva cominciato a scrivere, un paio di parole le aveva messe insieme, ma non sapeva comunque dove sarebbe andata a parare.
Ecco, no, non lo sapeva, quindi troncò il post in un punto indefinito della narrazione e decise di continuare beatamente a costruirsi castelli in aria, come solo lei sapeva fare e facendo ripartire la radio di Spotify da qui…

Finalmente potete liberamente fotografarvi i piedi con #apassodidonna

05/06/2013 § Lascia un commento

logo a passo diQuindi anche voi, mie care lettrici, vi siete fotografate i piedi almeno una volta da quando avete lo smartphone, giusto?
Ne sono certa, non venitemi a dire di no.
Ecco, adesso avete anche la scusa per farlo, ossia la possibilità di vincere un anno di scarpe, ripeto: UN ANNO DI SCARPE. Una cosa che solo a pensarci mi viene l’acquolina in bocca e il freddo dietro la nuca.
Con il concorso fotografico A Passo di Donna questa follia/sogno potrebbe diventare realtà: basta che raccontiate, in 140 caratteri, un momento clou della vostra vita, postiate una bella foto delle scarpe che vi accompagnavano e il gioco è fatto.

#apassodidonna

L’ho fatto anche io, ci ho messo qualche carattere in più dei 140 e, a dir la verità, sono partita verso un viaggio mentale come non ne facevo da tempo. Fermarsi un attimo a ragionare sui propri traguardi non è cosa da tutti i giorni, sono cose talmente grandi che non è che ci stiamo a pensare mentre facciamo colazione al bar o mentre corriamo a prendere la metro, a lavoro, poi, non ne parliamo.

Quindi mi sono messa lì a ragionare su questa cosa enorme, ma soprattutto mi sono messa lì a pensare che gli stivali di cui vi parlo (dei favolosi Fiorentini + Baker), effettivamente, hanno fatto grandi cose, hanno solcato migliaia di chilometri e incontrato una quantità di persone che neanche Kim Kardashian. Io mica ci avevo fatto caso? Prima per me erano solo “gli stivali che metto sempre”, oggi, invece, siamo un po’ amici.

Qui trovate quelle quattro paroline che ho scritto (insieme ad altre blogger) e, se volete leggere in giro qualcosa a proposito, utilizzate l’hashtag #apassodidonna.

Ci risentiamo presto per nuove, esaltanti avventure, o paturnie, dipende.

Quello che non ho

21/04/2013 § 2 commenti

[ALERT: Questo post segna un punto di rottura con quanto proposto precedentemente, per questo non sarà basato su alcuna morale svelata sul finale come una puntata qualsiasi di Desperate Housewives, ma sarà volto solo ed esclusivamente a narrare di cose di cui, molto probabilmente, vi fregherà meno che niente]

Consigli d’ascolto per la lettura

L’altro giorno, in un attimo di tregua dal turbinio (fatto solo di lavoro, che credete?) della mia vita milanese, mi sono resa conto che questo 2013 segna il mio primo DECENNIO di vita da personcina indipendente.
Ah, se lo sapesse mia madre! Beh, ora di certo lo sa e si sta già facendo i conti per verificare, ora ha verificato e proprio in questo momento si sta prendendo male. Ciao mamma!

Io quel primo viaggio che decretava l’inizio della mia vita da emigrante me lo ricordo tutto, ai tempi avevo fatto le valige per andare all’università e nell’autobus davanti a me c’era una che messaggiava con la madre, definendomi pazza a causa della mia voglia di libertà e autonomia (e anche un po’ di sfida) che raccontavo alla persona che mi stava accanto. Io la leggevo perché la svegliona teneva il cellulare in mano in modo che io da dietro, tra la fessura dei due sedili, potessi vedere perfettamente lo schermo del suo 3310 (almeno di cellulari ne capiva).

Comunque da quel giorno di cose ne ho fatte, ma soprattutto, da quel giorno, di cose non ne ho fatte tante.
No, non sarà un elenco delle cose che ho fatto in 10 anni: sono le solite cose che di certo avrai fatto anche tu e altri milioni di ragazzi, sono quelle sfide che credi di non superare e invece superi, sono le prime cose da adulti che ti mettono una paranoia addosso ma che quando le affronti poi ti senti Dio.
Vabbè io sto qui a parlare delle cose che non ho fatto, perché una persona è bello conoscerla anche per quello che non ha mai fatto, no? Anche le foto si possono vedere in positivo e in negativo (ndr. l’autore di questa constatazione è perfettamente cosciente della natura un po’ hipster, un po’ radicalchic, un po’ “grazialcazzo” della proposizione sulle foto).

In questi 10 anni non sono mai stata a Venezia, non ci sono manco mai passata per sbaglio, e devo ammettere che questa cosa mi sta un po’ scomoda. MISSION: Andarci entro i prossimi 3 mesi.

La movida milanese, i locali, il casino, gli amici gay: non essere mai stata al Plastic. MISSION: Andarci anche solo una volta nella mia vita. Sono curiosa, non fate gli integralisti che non serve a niente.

Non ho fatto da testimone a nessun matrimonio né battezzato una creatura: non sono cresimata e quindi non posso farlo. Sì, lo so che posso fare da testimone per il matrimonio civile, ma fortunatamente i miei amici hanno le mie stesse tempistiche e quindi non si sta sposando nessuno. Bene così. MISSION: Farmi la cresima entro i prossimi 5 anni, sai mai che.

Quasi 29 anni e nessuna convivenza alle spalle, ho dato sempre retta al mio sesto senso e ho fatto sempre bene. MISSION: continuare così.

Per quanto io sia brava e mi piaccia guidare (davero eh, chiedete in giro), non ho mai avuto una macchina, non mi è mai servita e oltretutto non saprei dove parcheggiarla. MISSION: risistemare la ruota posteriore della mia bicicletta ferma dalla scorsa estate.

Non ho mai fatto la ricostruzione alle unghie né usato ciglia finte: sono della scuola “si fa quel che si può, con quel che si ha”. MISSION: valorizzare quello che ho.

In 10 anni non sono stata in grado di far uscire due spicci per il secondo e terzo tatuaggio. MISSION: farli uscire entro il 2013.

Non sono mai andata a farmi un giro sui go-kart, lo sogno da quando sono ragazzina. MISSION: riuscirci entro il 2013.

Ma la cosa che mi brucia più di tutte è non essere mai andata dall’altra parte del mondo, in America o, meglio ancora, Giappone. Ci voglio andare in Giappone, il prima possibile, perché secondo me lì sono dei fighi.

L’odore della carta

07/11/2012 § 4 commenti

No, se state cercando verità nascoste e innovative sulla diatriba “carta” vs “digitale” vi dico subito che non è cosa. Il titolo non riguarda nemmeno le elezioni Americane. Il titolo l’ho scelto solo per l’indicizzazione, si sa, l’odore della carta tira, su internet. Non è vero: la carta c’entra, ma solo un po’.

L’altro giorno mi è capitato di dover cercare un giornale in edicola, uno di quei giornali che non vedi l’ora che esca, un po’ come gli album di figurine da bambini o il TOPOLINO con in allegato i pezzi dell’aggeggio da montare. Voi ve la ricordate la sensazione di entrare in un edicola da bambini? Le buste regalo, il Crystal Ball, le 500 lire.

Così stai lì a stalkerare il tuo edicolante di fiducia e a girarti tutte le edicole della provincia. Se non vi è mai successo: mi dispiace un pochino per voi.
Io di edicole ne ho girate 3 o 4 e niente, il giornale non c’era, allora mi sono detta: “Forza, aspetta solo due giorni e lo prendi a Roma, o alla peggio a Milano”. Domenica parto, arrivo a Roma, 10 minuti disponibili tra un treno e l’altro, mi piazzo davanti all’edicola a Roma Termini e, mentre guardo i giornali esposti per individuare quello di mio interesse, mi passano davanti almeno 6 persone. Ma vabbè. L’ultima tipa prima di me chiede “Libero” all’edicolante e, mentre cerca gli spicci per pagare, è arrivato il mio turno. Io mi prendo un attimo male a chiedere il mio giornale con quella tipa lì di fianco… No, non dovevo prendere un porno, bensì IL MALE di Vauro e Vincino.

Allora temporeggio e pronuncio il nome del giornale sottovoce, l’edicolante percepisce i miei suoni e mi porge finalmente la mia copia. È una situazione estrema, lascia fare, per una low-profile come me.

Salgo sul treno, leggo tutte le vignette varie, il capolavoro di Makkox, il pezzo di Johnny Palomba, le battute di Spinoza ecc ecc. Il metodo è: primo passaggio di lettura veloce dall’inizio alla fine e poi secondo passaggio più meticoloso. Si fa così, no?

Poi a un certo punto, lì in mezzo, ci sono io, giuro!
Sono lì a parlare, in maniera intelligente e per niente sbrigativa, del mondo dei bloggerZ. Compendio talmente serio che ci ho messo persino la faccia a garanzia di qualità.

Il n°41 de IL MALE resterà in edicola per ben due settimane, avrete la possibilità di avermi sul comodino, pensateci.

La foto l’ho sfocata apposta, così non vi tolgo il piacere di girare per qualche edicola, sbirciare nei contenitori delle figurine e vedere se “Cioè” esiste ancora.

Un grazie e un po’ di più a Dario Campagna, colui che ha pensato a me e al quale devo due cosette da un po’.

Ricordati dell’esperienza

05/09/2012 § 7 commenti

Mai come questo periodo mi sta capitando di dovermi separare da persone, cose, fatti. I motivi sono disparati e nulla che esuli dalla normale amministrazione della vita di una 28enne. Se da una parte mi allontano, dall’altra mi avvicino, come le palline del flipper che finiscono tra i respingenti. Non è irrequietezza né insofferenza, semplicemente capita: è quell’anno in cui sembra non esistere terra che tenga e dove le certezze  le vai a cercare in una birra e in un pacco di patatine (rigorosamente rigate) quando torni a casa dal lavoro. Quell’anno per me è il 2012 e spero davvero non vada oltre, della cellulite ne ho abbastanza.

Insomma un po’ di cambiamenti mi stanno facendo pensare, assai, soprattutto quando sono a pochi battiti di palpebre dal sonno. Che fine fanno quelle persone, quelle cose, quei fatti da cui piano piano devo separarmi?

[AVVERTENZA: la pesantezza di quanto scritto di seguito potrebbe non essere sostenibile. Filosofia spicciola e introspezione si avvicenderanno in un discorso che non porterà assolutamente a nulla. Non troverete riferimenti e citazioni sebbene quello che sto per dire lo avrà detto di certo qualcun altro, qualche migliaio di anni fa. Ma io non è che posso sapere tutto.]

Proprio ieri sera, con la testa ben affondata nel cuscino come piace a me, mi chiedevo quale fosse la differenza tra i ricordi, quelli lontani, quelli che ci hanno dato piacere, sofferenza, imbarazzo e via dicendo, e l’esperienza, quella cosa che viviamo tutti i giorni a partire da quando mettiamo il piede (destro) giù dal letto e che lo stesso ci dà piacere, sofferenza imbarazzo e via dicendo. Parrebbe dunque una differenza solo temporale, no? I ricordi nel passato remoto, l’esperienza nel presente e, al massimo, nel passato prossimo. Quest’ultima frase sembra uscita dal mio libro di filosofia delle superiori, per questo vi chiedo venia e, se andate a letto: buonanotte, vi capisco, se invece rimanete, fate silenzio e stappate una birra.

Vabbè, ma quindi la differenza? Ocio che parte l’elucubrazione.
Insomma l’esperienza è quella cosa che ti porti quasi addosso, tutti i giorni, radicata al corpo se vuoi, e che in qualche modo  ti obbliga a una fissità dalla quale non si può scappare, ti blocca, ti fa venire i brividi, ti condiziona ogni giorno e spesso e volentieri ti manda anche in discreta paranoia, c’hai ‘sta roba attaccata addosso e che a sua volta ti attacca a terra, un po’come una colata di pece in testa, ad opera di una betoniera. Oltretutto quella maledetta pece può portare portare parassiti, far da veicolo a robe brutte e farti ammalare perché stai appiccicato per terra e non puoi muoverti e le bestie ti salgono addosso. Insomma l’esperienza può tranquillamente farti essere un pioppo, o un cipresso o, per i più ottimisti, un albero da frutta.

Questa esperienza, però, prima o poi dovrà pure fare il suo tempo e abbandonarsi al passato, no? E allora evolve, come i Pokemon. La pece ti si stacca di dosso e quel miscuglio di roba diventa un’altra roba, una grande sfera omogenea fatta del materiale che vuoi tu: acqua, gomma, yogurt, pasta di mandorle, fa uguale, e se ne va a fluttuare lì, a mezz’aria, dove però tu puoi sempre vederla con la coda dell’occhio. Questa palla non si può ammalare più, perché non ha più nulla che le porti malattie, non si secca al sole bloccandoti, sta lì a farti compagnia perché non ha più l’imminenza a rovinarla. La mitica palla, però, una volta ti ha fatto soffrire, ridere, piangere, è stata una persona, un gatto, un collega, una bestemmia forte forte. E invece ora? Ora sta lì, innocua, e tu addirittura stai bene perché sai che c’è, perché a un certo punto non esistono ricordi buoni o ricordi cattivi, esistono ricordi che ci hanno fatto stare male, bene, ridere, dubitare, strillare ma sempre e solo ricordi sono, palle a tenuta stagna che nulla più possono su di noi, e alle quali ci siamo addirittura affezionati.

In definitiva io adesso mi sto scrollando di dosso un po’ di pece, certo non senza la dovuta fatica. Tra un po’ di tempo quello da cui mi sto separando starà tutto lì a fluttuare e, vi dirò, la palla sarà fatta di Didò e mi farà anche sorridere, perché come io ricordo sempre a me stessa, e a questo punto anche a voi, c’è il dentista da ammortizzare.

Di quando ero una tartaruga

06/12/2011 § 7 commenti

Chi mi conosce lo sa che non è che parli proprio tanto del mio passato, delle mie vicende, di quando ero una ragazzina sfigata. Ma non sfigata in senso negativo, sfigata perché avevo tutti i classici problemi da ragazzina sfigata: gli occhi debolucci, i denti sotto l’apparecchio fisso per anni, la schiena come il circuito del Mugello. Insomma: io a 13 anni, nel fiore della mia adolescenza, andavo a tre pistoni, invece che a quattro come tutte le mie amiche del tempo.

Verso i 12 anni, quando sei nell’età dello sviluppo, ai genitori scatta qualche meccanismo strano nella testa a causa del quale la loro rubrica si riempie di numeri di medici, specialisti, stregoni che per te e per il tuo futuro avranno solo sconfortanti parole (ma confortanti per le loro tasche).

Insomma la storia è che io crescevo in fretta, un centimetro in un mese è stato il mio record. La mia schiena si è trasformata ben presto in una “S” dorsale destra/lombare sinistra e la ginnastica correttiva, davanti a me, si faceva solo e giustamente delle grasse risate.

In pochissimo tempo io ero una di quelle col busto, quello brutto col collare e tutte le stecche di ferro, da mettere durante la notte, che poi uno mica cresce solo la notte? Ma vabbè.

Un giorno il busto non è bastato più e un medico ha pensato bene di trasformarmi in una tartaruga. Mi disse: “Tu, con quella schiena, quando un giorno sarai incinta, sarai costretta a passare tutta la gravidanza stesa sul divano, sarà rischiosissimo per te, il peso ti causerà tantissimi problemi, magari anche qualche ernia, per questo motivo dovremo metterti IL GESSO… E per almeno 6 MESI”.

Io quella frase lì non me la scordo mica, seduta sul lettino, lo sguardo fisso sulla faccia del dottore, con le lacrime che mi scendevano sulle guance, con troppa poca autorevolezza e troppi pochi anni per ribellarmi.

E insomma mi è toccato. Una tortura cinese che mi ha tirato collo e gambe, l’infermiera che continuava fastidiosamente a chiacchierare, la sala gessi che sembrava una carpenteria, i miei genitori senza parole, il respiro che a ogni tirata di brugola si affievoliva.

Per sei mesi, quando tutte le mie amiche compravano vestitini attillati, io ero una tartaruga, poco autosufficiente ma con una gran forza. Alla fine io a quel carapace mi ci ero anche un po’ affezionata, una volta ci feci anche una capriola sul letto dei miei. Poi me ne pentii, ma questa è un’altra storia.

Ogni tanto a quei tempi ci ripenso, a quello che facevo, a come lo facevo, ma soprattutto sto ancora qui a chiedermi se realmente siano serviti quei sei mesi da tartaruga visto che la mia schiena è ancora storta. Ma se non sono serviti per la mia schiena di certo sono serviti a qualcos’altro, ne sono certa, un po’ come tutte le cose che ci accadono durante l’arco della nostra vita.

Quei sei mesi mi sono serviti a essere una tartaruga, con una calma zen, una sicurezza da 5 stelle EuroNCAP ma tanta paura di ribaltarsi.

La foto è di Beni Ishaque Luthor

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